La Restaurazione decisa dal Congresso di Vienna nel 1815 aveva riportato in Italia i sovrani cacciati dalle repubbliche giacobine di fine Settecento e dalle conquiste napoleoniche d’inizio Ottocento.
Poi, per almeno tre decenni, l’abile cancelliere austriaco Klemens von Metternich era riuscito a mantenere lo status quo fino alla rivolta di Vienna del 1848, che lo costrinse a dimettersi e fuggire.
Iniziava allora, in Italia settentrionale, la prima guerra d’indipendenza dall’Austria, terminata nel 1849 con la sconfitta e l’abdicazione del re Carlo Alberto in favore del proprio figlio Vittorio Emanuele II.
Dieci anni dopo, però, la vittoria contro l’Austria nella seconda guerra d’indipendenza (1859) e la fortunata spedizione di Garibaldi in Sicilia e nell’Italia meridionale (1860) permisero la celebrazione dei plebisciti, che legittimarono l’annessione militare al Piemonte delle province lombarde, emiliane, romagnole, umbre, marchigiane, napoletane e siciliane, sì che il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II accettò il titolo di re d’Italia, offertogli dal primo Parlamento italiano riunito a Torino.
Cinque anni dopo, in seguito alla terza guerra d’indipendenza (1866), l’Austria cedeva all’Italia anche il Veneto, che andava così a integrarsi nel Regno d’Italia. Poi, il 20 settembre 1870, approfittando della sconfitta subita a Sedan contro la Prussia di Bismarck dalla Francia di Napoleone III, che nel 1849 aveva schiacciato la Repubblica romana e che da allora garantiva la sopravvivenza politica dello Stato della Chiesa, l’esercito italiano prendeva Roma.
Allora il papa Pio IX, chiusosi per protesta in Vaticano, il 1° novembre 1870, con l’enciclica Respicientes ea, dichiarava ipso facto scomunicati tutti coloro che avevano consigliato, comandato, favorito, aiutato, eseguito l’invasione, l’usurpazione, l’occupazione delle province pontificie e della città di Roma.
Così, accompagnati dalla scomunica del papa e dal suo divieto (non expedit) ai cattolici di partecipare alla vita politica, il Regno d’Italia entrava nell’età dell’imperialismo coloniale, caratterizzato da una politica interna repressiva delle prime proteste operaie e da una politica estera espansionistica e aggressiva nei confronti degli Stati confinanti e del continente africano.
Il canto La fanfara racconta i momenti salienti della storia del Regno d’Italia, dalla presa di Roma (20 settembre 1870) fino al referendum istituzionale (2 giugno 1946), quando italiani e italiane, chiamati a scegliere tra Repubblica e Monarchia, con oltre due milioni di voti in più scelsero la Repubblica, sì che il 12 giugno 1946 l’ultimo re d’Italia, Umberto II, lasciò l’Italia per il Portogallo.
La fanfara ricorda questi eventi attraverso la finzione poetica di tre o quattro generazioni di giovani soldati, che di padre in figlio scoprono a proprie spese il costante contrasto tra i magnifici progetti pacifici, in nome dei quali essi sono arruolati e inviati a combattere, soffrire, morire dalla fanfara orchestrata dal potere, e l’orrore della repressione, dell’occupazione, dell’umiliazione, inflitta e subita sui fronti di guerra e nei paesi europei e africani ribelli alla loro aggressione.
Dopo la presa di Roma, che corona l’unificazione italiana, il soldato protagonista rievoca gli scioperi a Milano, repressi a cannonate dal generale Bava Beccaris (1898); la guerra italo-turca per la Libia (1911 – 1912), dove per ben venti anni gli italiani continuarono a impiccare i patrioti libici ribelli e a deportare le popolazioni che ne sostenevano la resistenza; la guerra italo-austriaca (1915 – 1918), all’interno della prima guerra mondiale, per la liberazione di Trento e Trieste, e l’espansione italiana nei Balcani, che provocò centinaia di migliaia di morti nelle battaglie lungo il fiume Isonzo e, dopo la rotta di Caporetto, lungo il fiume Piave; la guerra italo-etiope, che portò gli italiani a bombardare con bombe piene di gas perfino ospedali della Croce Rossa, pur di conquistare rapidamente Addis Abeba (1935 – 1936); la partecipazione italiana alla guerra civile spagnola a fianco del generale fascista e golpista Franco, per aiutarlo ad abbattere la Repubblica (1936 – 1939); la spedizione italiana in Russia (1941 – 1943), durante la seconda guerra mondiale, che provocò oltre centomila morti per ferite, malattie, inedia, congelamento sul fronte del fiume Don e durante la tragica ritirata, seguita alla disfatta tedesca ad opera dei russi nella gigantesca battaglia di Stalingrado.
Questo contrasto tra propaganda del potere e realtà imposta dal dovere appare sfacciato e intollerabile soprattutto dopo l’8 settembre 1943, quando il maresciallo Badoglio annuncia che è stato firmato l’armistizio con gli Alleati anglo-americani, provocando l’immediata occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco.
Chiamati, allora, ancora una volta a difendere l’onore della Patria da quegli stessi loschi figuri che l’avevano per decenni tiranneggiata, portata in guerra e tradita, molti giovani si ribellano al tedesco invasore e ai suoi vassalli fascisti, resistono per venti mesi alle loro violenze e alle privazioni della lotta partigiana, finché, dopo aver contribuito con centomila morti a sconfiggerli e cacciarli, il 2 giugno 1946 votano per la Repubblica, cioè per la libertà e la giustizia sociale.
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