Sconfitto definitivamente Napoleone nella battaglia di Waterloo nel 1815, il Congresso di Vienna aveva avviato la Restaurazione della situazione preesistente alla Rivoluzione Francese del 1789.
In Italia, ormai tutta controllata da Vienna, furono restaurati gli antichi sovrani, cacciati dalle repubbliche giacobine e dalle armate francesi, mentre i territori delle antiche e gloriose repubbliche marinare di Venezia e di Genova furono assegnati all’Austria e al Piemonte.
Intanto, nel 1805, proprio a Genova, che per otto secoli si era governata come repubblica indipendente, era nato Giuseppe Mazzini, l’apostolo dell’Italia unita, indipendente e repubblicana.
Dopo una precoce e deludente adesione alla Carboneria, che aveva promosso i moti del 1821 e del 1831, il giovane Mazzini aveva maturato la convinzione che, per unificare e liberare l’Italia dagli stranieri, non si doveva confidare nell’iniziativa dei principi e dei loro governi, ma bisognava puntare sull’organizzazione e sull’azione popolare.
Non si trattava, cioè, di trovare un accordo tra i principi italiani, ma bisognava organizzare e provocare una rivoluzione popolare, che abbattesse i vecchi Stati monarchici regionali e creasse una repubblica democratica nazionale.
Arrestato, come sospetto carbonaro, e costretto dalla polizia sabauda a scegliere tra il soggiorno obbligato in un paesino del Piemonte e l’esilio, Mazzini scelse l’esilio, passò in Francia e nel 1831 fondò a Marsiglia la Giovine Italia, un vero e proprio partito politico, che si presentava come “la fratellanza degli Italiani, i quali consacrano, uniti in associazione, il pensiero e l’azione al grande intento di restituire l’Italia in nazione di liberi ed eguali, una, indipendente, sovrana.”
Questo programma suscitò adesioni entusiastiche in Liguria, Piemonte, Emilia e Toscana, soprattutto tra i giovani, i quali organizzarono insurrezioni, che tuttavia fallirono tutte, provocando arresti, processi, carcere, condanne a morte.
Così Mazzini fu allora costretto a lasciare la Francia e a rifugiarsi in Svizzera - dove nel 1834 fondò la Giovine Europa - e dal 1837 a Londra, donde continuò a operare per un’Europa dei popoli che sostituisse l’Europa dei monarchi, contribuendo così a preparare “la primavera dei popoli”, cioè la grande ondata di rivoluzioni popolari del 1848, in cui fu molto attivo anche il giovane Goffredo Mameli, che, infatti, morì a Roma, il 6 luglio 1849, in seguito a una ferita riportata, combattendo con Garibaldi in difesa della Repubblica Romana aggredita dai francesi.
Come Mazzini, anche Mameli era nato a Genova, il 5 settembre 1827. Dopo la prima educazione ricevuta in privato, frequentò le scuole degli Scolopi, che, a differenza dei Gesuiti, impartivano un’educazione piuttosto liberale, che gli permise di studiare i classici latini e italiani, e di leggere i romantici francesi e soprattutto l’inglese George Byron, di cui il poeta francese Alphonse de Lamartine nel 1825 aveva tratteggiato le vicende nel suo Ultimo canto del pellegrinaggio di Aroldo, in cui presentava l’Italia come una terra di morti, dove tutto dormiva, mentre altrove tutto era in movimento, e da cui pertanto Aroldo si allontanava deluso, per andare, diceva, a "cercare altrove uomini e non polvere umana".
Questa immagine dell’Italia terra di morti, dove tutto dormiva – anche Mazzini parlava di “Italia dormiente” da risvegliare – e non si trovavano veri uomini, che l’anno successivo costò a Lamartine, allora ambasciatore francese a Firenze, un duello con l’esule napoletano Gabriele Pepe, dal quale fu ferito a un braccio, e che nel 1841 fu messa in berlina dal patriota lucchese Giuseppe Giusti nella poesia La terra dei morti, spiega bene perché, nel 1847, Mameli iniziasse entusiasta il proprio Canto nazionale, con il distico “Evviva l’Italia / L’Italia s’è desta”, che il suo amico Michele Novaro, genovese anche lui e maestro del coro regio a Torino, nel musicarlo, cambiò in “Fratelli d’Italia / l’Italia s’è desta”.
Già nel biennio passato presso gli Scolopi, il tredicenne Mameli aveva cominciato a manifestare interesse per la poesia, di cui intuiva il valore pedagogico civile, come insegnava anche Mazzini, coetaneo e amico di sua madre, e aveva iniziato a scriverne in proprio secondo i modelli di Giovanni Berchet e Giovanni Prati, poeti allora molto noti e ammirati. Questo interesse per la poesia, intesa come azione politica di formazione civile, continuò e giunse a maturazione negli anni d’università, in cui, dopo essere stato iscritto per due anni a filosofia, Mameli passò a legge, senza tuttavia conseguirne la laurea, poiché la poesia e la politica ne impegnarono sempre più il pensiero e l’azione.
Impegno poetico e politico militante, che divenne totale dall’estate del 1846, quando fu eletto papa il cardinal Giovanni Maria Mastai Ferretti, che, preso il nome di Pio IX, iniziò il proprio pontificato con alcune riforme – amnistia per i reati politici, libertà di stampa, guardia civica, organi consultivi di governo costituiti da laici anziché come sempre da ecclesiastici – che lo fecero apparire molto più liberale di quanto in realtà fosse e portarono molti italiani a credere che egli fosse il papa auspicato nel 1843 dall’abate Vincenzo Gioberti, nell’opera Del primato morale e civile degli italiani, che vedeva la soluzione del problema politico italiano nella creazione di una confederazione dei principi italiani presieduta dal papa, in quanto capo della religione cattolica, che, secondo Gioberti, caratterizzava e unificava tutti gli italiani oltre ogni loro differenza regionale e sociale.
Per contrastare la confederazione monarchica neoguelfa di Gioberti, Mazzini incaricò allora il genovese Nino Bixio di riprendere l’attività cospirativa a Genova, reclutando forze fresche. Fu così che, tramite Bixio, futuro luogotenente di Garibaldi, il diciottenne Mameli aderì definitivamente al progetto mazziniano di repubblica nazionale unitaria, da realizzare mediante la rivoluzione e la guerra del popolo contro i principi italiani e gli occupatori austriaci.
Da questo momento, Mameli mise interamente le proprie capacità poetiche a servizio di Mazzini, ponendone in versi il progetto politico, rendendolo pertanto cantabile e restituendogli così quel fascino e quella forza di attrazione, che aveva avuto agli inizi, ma che aveva in parte perduto per le molte sconfitte subite e per le tragedie seguitene: dal suicidio in carcere di Jacopo Ruffini nel 1833 alla fucilazione nel Vallone di Rovito dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera nel 1844. Così, tra l’8 e il 10 settembre 1847, Mameli scrisse il Canto nazionale o Canto degli italiani.
La prima strofe, la più artificiosa, si articola in due parti: la prima annuncia, esultante, che l’Italia si è destata e si è cinta la testa con l’elmo di Scipione, l’antico romano, che, sconfiggendo il cartaginese Annibale nella battaglia di Zama (202 a. C.), aveva liberato la patria dagli stranieri invasori; la seconda, poi, sollecita la Vittoria a porgere a Roma (come rima comanda) la chioma, poiché Dio l’ha creata schiava di Roma, cui tutta l’Italia ora guarda e dove in antico le schiave portavano i capelli tagliati corti in segno di sottomissione alle loro padrone, che invece li portavano lunghi.
Anche la seconda strofe si articola in due parti: la prima afferma che gli italiani sono da secoli calpestati e derisi, perché non sono popolo, perché sono divisi; la seconda, quindi, li esorta a raccogliersi tutti intorno a un’unica bandiera, una speranza, poiché l’ora di fondersi insieme è finalmente suonata.
La terza strofe invita ancora a unirsi, ad amarsi, perché l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore, e a giurare di liberare il suolo nativo, sicuri che nessuno potrà vincerli nel compiere la missione di libertà e progresso che Dio, secondo Mazzini, aveva affidato al popolo italiano.
La quarta strofe rievoca gli eventi e i personaggi storici, che nel corso dei secoli medievali e moderni, come già l’antico Scipione romano, hanno combattuto da Nord a Sud per difendere la libertà della patria dall’invasore straniero.
Vengono cos' rievocati la battaglia di Legnano, dove nel 1176 le città della Lega lombarda sconfiggono l’imperatore tedesco Federico Barbarossa; Francesco Ferruccio, che nel 1530 muore per difendere Firenze dagli spagnoli di Carlo V; il giovanissimo Balilla, che nel 1746 inizia la rivolta genovese contro gli occupanti austriaci; la rivolta dei Vespri siciliani del 1282 contro i nuovi signori francesi; l’evocazione di questi eventi, il coraggio e il valore di quei personaggi appartengono ormai anche ai bambini d’Italia, dove ogni campana ora chiama alla guerra nazionale per la libertà.
La quinta strofe, infine, incoraggia alla guerra d’indipendenza nazionale, ricordando a tutti che le spade dei mercenari stranieri sono pieghevoli come giunchi, che l’aquila imperiale austriaca ha perso le penne e ha il cuore bruciato dal sangue, che ha bevuto insieme al suo alleato russo (cosacco), schiacciando nel 1831 le rivolte del popolo italiano e del popolo polacco contro il loro dominio.
Il ritornello, pertanto, chiama quindi, insistente, gli italiani a stringersi a coorte, a schierarsi a battaglia, pronti anche a morire, per rispondere all’Italia, che ha chiamato a combattere per l’unità nella libertà.
Ispirato alle idee patriottiche del genovese Mazzini, scritto dal genovese Mameli agli inizi di settembre del 1847, musicato dal genovese Novaro agli inizi del novembre di quell’anno, eseguito per la prima volta a Genova, il 10 dicembre successivo, in occasione della grande manifestazione organizzata per rievocare il 101° anniversario della rivolta cittadina antiaustriaca iniziata con la sassata tirata dal diciassettenne Giovanni Battista Perasso, detto Balilla, ad alcuni soldati austriaci, che allora, cioè durante la Guerra di successione austriaca, occupavano la città ligure, il Canto nazionale fu anzitutto un canto genovese, che i mazziniani e i garibaldini diffusero poi in tutta l’Italia.
Attraverso i decenni dell’Italia liberale, la prima guerra mondiale, la dittatura fascista, la seconda guerra mondiale e la Resistenza, ora più ora meno amato e cantato, l’inno di Mameli e Novaro è stato sempre presente nella storia italiana, fino a giungere al 12 ottobre 1946, quando esso fu “provvisoriamente” adottato dal governo De Gasperi come inno della neoistituita Repubblica Italiana; provvisorietà durata, tuttavia, fino alla legge del 4 dicembre 2017, n. 181, che al primo comma stabilisce: “La Repubblica riconosce il testo del Canto degli italiani di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale.”
Poiché, tuttavia, anche quando viene cantato, ne viene cantata soltanto la prima strofe, cioè quella più retorica e meno significativa, sì che il suo forte appello all’unità per la libertà e la dignità nazionale rimane generalmente ignoto agli italiani, noi lo abbiamo reso cantabile per intero in pochi minuti, sostituendo la bella e complessa melodia di Novaro con una melodia più semplice e lineare, e trasformandone il ritornello in una strofe finale di quanto Mameli cantò.
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